
Aprile è il mese della consapevolezza circa lo stress. Almeno nel Regno Unito.
È strano che occorrano così tanti mesi dedicati, giornate nazionali, per sensibilizzarci circa temi che dovremmo conoscere a menadito. Quantomeno per il fatto che riguardano eventi spesso alla ribalta della cronaca o popolanti le pagine di quotidiani e riviste. È strano che occorra un mese intero per sensibilizzare le persone alle problematiche legate allo stress. Perché, se non tutti, molti di noi dovrebbero conoscerle molto bene, Perché molti di noi già vivevano vite stressanti prima, poi la pandemia ha dato il colpo di grazia rendendo lo stress un bene democratico.
Tornando alla ricorrenza di Aprile, il tema di quest’anno è la comunità. Che influenza può avere la comunità sullo stress? L’uomo è un animale sociale. Un animale, sì, che però rinchiuso da solo senza contatti tra quattro mura si snatura. Comunità vuol dire “condividere”, non limitarsi al confronto unilaterale con noi stessi. Vuol dire poter parlare, aprirsi, scoprire che davvero “mi casa es tu casa”, i miei problemi sono i tuoi, le mie soluzioni potrebbero essere anche tue e viceversa. La pandemia ci ha privati di tutto questo, ma non è l’unica colpevole.
Siete genitori? Vi sarà capitato di dover lavorare da casa anche per un’intera settimana per accudire i figli ammalati. Voi, i figli, le famose 4 mura e un paio di cuffie come unico contatto con il mondo esterno. Ecco… il primo giorno a regola passa anche. Il secondo giorno compaiono occhi pallati contornati da occhiaie livide tendenti al grigiastro. Il terzo giorno iniziate ad avere visioni di San Pietro sulla traversa del monitor del pc (Cit. aulica da uno dei tanti Fantozzi), il quarto giorno compaiono i primi tic nervosi ed il quinto giorno è venerdì: si inizia a vedere la luce. Quella delle schiere celesti però, perché nel frattempo, il malanno dei figli si è attaccato a voi. Un bel week end di clausura per sanare il corpo e affossare la mente definitivamente. A quel punto anche una chat di mamme potrebbe rappresentare uno spiraglio salvifico e impersonare una tanta anelata parvenza di comunità.

L’essere umano ha una capacità di adattamento tale che a tratti rasenta l’assuefazione. Più ci isoliamo, più incontriamo difficoltà a relazionarci con gli altri e più ci isoliamo per non doverci rimettere in gioco. Una bella spirale insomma. Eppure a volte basta che si palesi anche solo una piccola opportunità di riassaporare la vita di comunità, per farci capire cosa ci siamo persi e per portarci ad apprezzare nuovamente la socialità, senza se e senza ma. Basta ad esempio una riunione a scuola, il confronto con altri genitori, per farci capire che le tragedie scellerate che ci hanno colpiti negli ultimi mesi non sono una nostra prerogativa.
Basta una cena di lavoro in un posticino carino, per farci render conto che il lievito, compagno fidato dei nostri momenti di solitudine, lo sanno usare anche altri. Che la convivialità esiste anche fuori dalle mura di casa. Che cenare in comunità non è poi così male.
Non siamo soli, non siamo fatti per essere soli. Noi viviamo per la comunità, nella comunità. Noi viviamo se siamo in comunità. Noi siamo la comunità.
Ecco perché la comunità e la socialità sono così importanti per noi. Ecco perché, se ce ne priviamo, andiamo in sofferenza.
Prima di me, prima di qualsiasi associazione promotrice della salute mentale, l’aveva già capito il poeta britannico John Donne:
No man is an island,
Entire of itself;
Every man is a piece of the continent,
A part of the main.
If a clod be washed away by the sea,
Europe is the less,
As well as if a promontory were:
As well as if a manor of thy friend’s
Or of thine own were.
Any man’s death diminishes me,
Because I am involved in mankind.
And therefore never send to know for whom the bell tolls;
It tolls for thee.
E poi ancora, in anni successivi, Jon Bon Jovi lo citava in apertura di un famoso, nostalgico bellissimo brano:
Articolo a cura di Cinzia Costi