
Questo articolo registrerà una malinconica conclusione, ovvero l’assenza di una “medicina” efficace per risolvere il problema: la violenza sulle donne. È il day after, il giorno dopo le stucchevoli giornate mondiali contro la violenza sulle donne, che in attesa della prossima giornata 2023, comincerà a contare le vittime.
È il day after di una distratta adesione collettiva al tema, della serie “ah sì, violenza sulle donne siamo contrari”: in poco altro si riduce l’attenzione che meriterebbe il tema.
Meriterebbe perché, nei dati, una donna su tre nel mondo subisce una qualsiasi forma di violenza. Così anche in Italia. Ora, volessi assurgere a campione della campagna contro la violenza sulle donne peccherei di falsità negli intenti. Sono colpevole, quantomeno passivo. Nella mia storia personale, nato uomo, non me ne è mai fregato nulla; magari potenzialmente in grado di operare violenza sulle donne, sposato, quando ho cercato di fare prevalere la mia cultura maschilista ho trovato nella mia donna pan per focaccia. Mi ha messo in riga e piano piano educato alla parità dei sessi. Ma sempre molto passivamente e soprattutto nel recinto di casa. All’alba dei miei sessanta e più anni si è svegliata in me la necessità di sentirmi un pentito, colpevole, redento, ma ancora un po’ ipocrita. Però pronto ad espiare, nel volermi dedicare per il futuro con attenzione al tema.
Come non lo so, ma qualcosa potrò inventarmi. Intanto, da amante del web, ho cercato di comprendere le dimensioni del fenomeno, in primis cercando spunti di approfondimento sul tema. Esiste una letteratura che mette brividi e conoscenze sulle spalle di tutti noi, tali da renderci noto il tema nelle sue cause, nelle sue dimensioni, ma soprattutto nella mancanza ad oggi di una strategia comune e coerente alla soluzione, quantomeno alla mitigazione del problema. Questo, in primo luogo, non è un tema da lasciare alla buona volontà dei singoli o delle associazioni di volontariato. Il problema è come al solito quello del pesce che puzza: puzza dalla testa. E la testa sono le indicazioni che uno Stato consapevole deve dare ai suoi cittadini. Partendo dalle punizioni?
No, troppo facile, non possiamo assolvere la coscienza di un violento con punizioni di qualche mese o anno. È una sconfitta. Partiamo dalla famiglia per un’educazione al linguaggio: una donna che sbaglia non è una troia, o sbaglia perché donna. Sbaglia, punto. Poi lo Stato ci metta il suo, deve partire educando i piccoli all’asilo, alle scuole elementari, per cominciare a smontare tutte le convinzioni che differenziano maschi e femmine. Qualcuno di voi riderà, pensando che io parli di medioevo. No amici miei, se prima dicevo che una donna su tre in Italia è vittima di violenza, bene immaginerete che le strutture scolastiche sono ancora infarcite di patologie di genere. La vittoria sarà cominciare ad identificarle, a lavorare sugli insegnanti per aiutarli a migliorarsi, fare capire loro che un dicente può sbagliare un congiuntivo, ma non può tollerare che ancora nelle relazioni di aula e nei giochi di intervallo le bambine abbiano il ruolo atavico della minorità.
Devono esistere in ogni scuola comitati di indirizzo e di analisi di questi fenomeni, capaci di indirizzare i comportamenti degli insegnanti. Poi il mondo del lavoro: parliamo tanto di gestione, organizzazione, capi del personale.
Bene ogni azienda dovrà avere una funzione del personale certificata, esaminata, qualificata nell’affrontare la corretta relazione e gestione del lavoro e dei generi all’interno dell’azienda. Mi pento nel non avere mai condiviso il pensiero di coloro che vedono nei temi culturali ed educativi le soluzioni. Ma questo della violenza sulle donne non può avere altre soluzioni. Ebbene sì, riconosco anche io che una possibile soluzione sia, pur partendo da lontanissimo, un fatto di educazione e cultura. Un lavoro assiduo su di esse. A cui poi dovrà affiancarsi il tema dei punti di attenzione istituzionali. Centri di raccolta di informazioni in grado di poter, prima di punire, capire e cercare di orientare quello che ancora in embrione può trasformarsi in qualcosa di più grave. Agendo sul sostegno per i soggetti passivi, ma soprattutto sulle ragioni dei violenti. Machismo? Gelosia? Frustrazioni di ogni tipo?
È più facile prendersela con gli affetti vicini che non con le reali cause di ciò che scatena la violenza? Alla fine, e solo alla fine, la macchina delle denunce. Ad oggi una sensazione: che sia collusa con i violenti, se non colpevole come i violenti. Ma come si fa ad ascoltare che una denunciante con il volto tumefatto di pugni, qualche mese dopo avere denunciato viene uccisa? Come a credere alla buona fede delle campagne dei governi contro la violenza sulle donne? Basta con gli omicidi di stato! Alla fine di tutto sento i vostri commenti: quante ovvietà e banalità ci fai ascoltare. Certo. Voi neanche quelle.