“Liberté, Égalité, Fraternité”. Così recita il celebre motto della Rivoluzione francese, un mantra inserito nella Constitution française e inculcatoci sin dall’infanzia a scuola nelle banlieue di Parigi in classi che abbondavano di figli di Immigrati. A voler decorticare questo concetto, a distanza di 25 anni, ancora oggi nella mia testa vibra come una nota suonata male. 

Egalité: a 18 anni per poter accedere a tutti i vantaggi che poteva offrire l’Università a Parigi, ho dovuto scegliere tra il diventare francese o italiana: vuoi la borsa di studio? Cantaci la Marsigliese e ti apriamo le porte della sapienza…. E come Anakin Skywalker in Star Wars, probabilmente agli occhi di mio padre sono passata al lato Oscuro della Forza, perché non mi rivolse la parola per sei mesi dopo aver scoperto che avevo giurato fedeltà a Chirac piuttosto che a Scalfaro. Ancora oggi me lo rinfaccia… un siciliano non dimentica. Il sapore dell’istruzione, alla fine, ci lasciava l’amaro in bocca alla ricerca della nostra identità. 
Erykah Badu cantava in Other side of the Game “brother got this complex occupation. And it ain’t that he don’t have education ‘Cause I was right there at his graduation.” Negli anni 90’, ai confini della Paris per bene, i ragazzi della mia generazione, forse ancora oggi, pagavano a caro prezzo l’Egalité, per la troppa voglia di farcela, di emergere. Ed erano tanti, i ragazzi dalla “complexe occupation”, dei geni a scuola che per continuare a studiare e non pesare sulla propria famiglia si insinuavano nel circolo vizioso del guadagno facile. Ma rimanevano sempre quelli che chinavano la testa in segno di rispetto e di saluto, tutte le volte che passava un “anziano”, mio padre compreso, nonostante fossero temuti da tutto il quartiere.

Fraternité: ho vissuto il razzismo, quello vero, il mio nome poteva passare inosservato, ma il mio cognome non mi dava via di scampo: oggi in Italia mi chiamano carinamente “la Francesina”, ma per i miei primi 25 anni, a Parigi sono sempre stata “la Ritale” l’equivalente del “Dago” in America, L’Etranger di Albert Camus.  È pur vero che eravamo, forse senza volerlo, la caricatura dell’italiano all’estero: mio padre aveva un “restaurant italien” e sfornava pizze tutto il giorno, e a casa mia regnavano Ramazzotti e la Pausini (ahimè…) che facevano da colonna sonora all’Imam del nostro quartiere che chiamava i musulmani alla preghiera durante il Ramadan.  E la pasta al sugo, immancabile, ogni Santa domenica. Ricordo ancora con malinconia di essere stata persino vittima dell’odio della mamma di un mio fidanzatino sedicenne che mi vedeva come la futura dipartita del figlio semmai un giorno finisse nelle grinfie della mia famiglia di “mafiosi”. Ma ero brava a scuola, per cui lo ha lasciato frequentarmi finché potevo aiutarlo con i compiti; è stato bocciato alla maturità e la “Fraternité” è andata a farsi benedire.

Liberté: a scuola ricordo che a lezione di storia, inevitabilmente con il nostro bel Melting Pot in classe, gli animi si scaldavano sempre quando si affrontava il tema della Palestina. Alunni ebrei e musulmani, pur avendo una conoscenza molto superficiale sulle origini di questo eterno e triste conflitto, si affrontavano violentemente sull’argomento, ma guai a parlarne quando passava il Preside. Libertà di espressione sì, ma state calmi…. Il tabù colpiva come un macigno, era la censura di noialtri. I controlli di polizia hanno dolcemente scandito le mie passeggiate di gruppo, altroché che Benigni e Troisi “chi siete, quanti siete? Documenti? In commissariato…”. L’immagine della studentessa modello seduta ad aspettare che la venissero a prelevare i genitori era patetica, ma bastava poco per fare degenerare situazioni blande nei commissariati, per cui rimanevo seduta in silenzio e sempre laconicamente, come nel film di Mathieu Kassovitz “L’Odio”, mi ripetevo “jusqu’ici tout va bien…” fin qui, tutto bene.     
Ancora oggi, quando torno nella “Cité” dove vivono ancora i miei, ogni tanto incrocio qualcuno della “complexe occupation”. Alcuni sono diventati professori, giornalisti, ingegneri o addirittura funzionari locali che si battono per il bene delle periferie e dei giovani. È vero, oggi la banlieue è stata ri-blasonata, servizi di ogni tipo ovunque, trasporti pubblici ecologici e all’avanguardia, anche “Les Cités” sono più moderne, ristrutturate, ma estese in larghezza, non più in altezza, come per dire “nascondili un po’ che pare brutto, non sia mai viene qualcuno…”.

La Street Art di chi taggava sulle mura della città per esprimere pensieri repressi è diventata attrazione per turisti ed intellettuali dell’alta borghesia che, sciarpina al collo e scortati nei meandri dei quartieri, vengono ad impregnarsi della cultura disperata delle banlieue per nutrire i loro pensieri profondi. Ma conta il risultato: la mia città è diventata un famoso e riconosciuto pool culturale, anche se sempre in contraddizione con l’analfabetismo che ancora esiste ed esisteva alla mia epoca, quando era scena comune vedere arrivare genitori ai colloqui a scuola accompagnati dal figlio maggiore per tradurre le ire del professore. 

Forse, dopo 25 anni, quelli della mia generazione si sentono un po’ come dei sopravvissuti e hanno abbracciato solo ciò che di bello la banlieue ha potuto offrirci. Come la canzone di Zebda, forse siamo ciò che “le béton a fait de meilleur”, eppure abbiamo ancora l’illusione che sia il posto dove ci sentiamo più sicuri, laddove invece chi non ci ha vissuto scaperebbe a gambe levate. Probabilmente all’epoca non mi rendevo conto della ricchezza che mi stava regalando tutto questo, un bagaglio prezioso che mi sarei portata dietro tutta la vita, tirando fuori ogni tanto qualche panno sporco, ma sopratutto qualche tesoro inestimabile.

E se oggi mi offrono il privilegio di scrivere qualche mia elucubrazione, allora posso dire che c’è sicuramente vita dopo la banlieue…  

Di Liliane Arnone

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