
Immaginatevi di camminare tra le vie di Firenze a fine ‘800. È luglio, il caldo si rispecchia nelle acque dell’Arno e sembra sciogliere i lastricati sotto i vostri piedi, quei lastricati che avevano lasciato qualche dubbio agli occhi di Nietzsche. 32 gradi, non un filo d’aria, siete in Santa Maria del Fiore in attesa dell’inaugurazione del portone principale. La fame si fa sentire, il clima è torrido, ci vorrebbe un gelato, ma questo vorrebbe dire perdersi il momento ufficiale, vorrebbe dire entrare in un locale e ordinare una coppa di vetro da gustare con il cucchiaio seduti ad un tavolo.
Bisognerà attendere il 1903, bisognerà attendere un italiano perché venga inventato il cono gelato.
Un’invenzione che discende direttamente dall’osservazione del comportamento e dal desiderio di migliorare la qualità dell’esperienza sia al consumatore che al venditore. L’obiettivo era sì, consentire alle persone di godere del gelato passeggiando, ma anche bypassare l’utilizzo del vetro – che poteva essere rotto o rubato, causando una perdita economica.

Guardate la vostra mano, stringete il pugno, notate come il mignolo formi un anello di diametro minore rispetto alle altre dita? Il vuoto all’interno della mano chiusa ha una forma perfettamente complementare con quella conica della famosa cialda e riduce la propensione a scivolare che avrebbe se fosse a forma cilindrica. Perfezione ergonomica.
Viene prodotta con materie naturali (acqua, farina, zucchero e uova) facilmente reperibili ovunque ci si trovi stimolandone una produzione diffusa, riducendo la necessità di spostamenti sul pianeta e consentendo la vendita ad un prezzo estremamente modesto. Oltre ad essere “chilometro zero” è un contenitore alimentare ecologico che dura esattamente il tempo necessario al suo utilizzo per trasformarsi poi in energia.
Ultimo traguardo, ma non per importanza, raggiunto dal cono gelato è quello dell’accessibilità: il suo utilizzo è possibile anche da una persona affetta da disabilità, quale la mancanza di uno degli arti superiori – cosa che non può riferirsi all’utilizzo della diade strumentale coppa-cucchiaino.

Il cono ci insegna tanto del design thinking, ci insegna a partire dall’osservazione, a modulare il prodotto sulla base delle caratteristiche del nostro target – l’umanità intera in questo caso, un vero design for all – a valutarne l’impatto ambientale e mantenere anche una buona dose di responsabilità sociale. Queste sono le basi dello Human Center Design, un approccio che vede necessaria la centralità del futuro utente all’interno del processo di progettazione.
Non esiste progetto che sia nato nel vuoto sociale, ma esistono progetti ciechi, forse per suggestione, paura o chissachè – come cantava Battisti – progetti che decidono di catturare un elemento e focalizzarsi solo su di esso, estrapolandolo, ed estraniandolo dal suo contesto di vita. La progettazione avviene nel mondo, e non può nascondersi da esso, ma deve piuttosto passeggiarci insieme, magari mangiando un gelato, due gusti, rigorosamente cono.
Articolo a cura di Antonio Floriani