
Vogliamo dare a tutti quanti conto di un giornalismo fatto di passione e serietà. Lontano dalle carrambate (non me ne vorrà l’indimenticata Raffaella nazionale) che muovono le lacrime, ma non l’essenza. Franca Leosini, con i suoi 87 anni, maneggia con grande rispetto e professionalità la materia umana e le sue storie, facili, se riesumate in televisione, a derive lacrimose o a conclusioni mielose.
Nota al grande pubblico, giornalista dal 1974, ha frequentato redazioni importanti: L’Espresso, Cosmopolitan, il Tempo, la Rai. Torna dal 4 novembre 2021 con una nuova trasmissione su Rai 3, “Che fine ha fatto Baby Jane?”, sequel ideale della sua più nota creatura: “Storie Maledette”, che dal 1994 ha portato in casa di tutti l’umanità, o quello che resta, di omicidi efferati.
Sequel nel senso che riprende i personaggi delle “Storie Maledette” e va a vedere a che punto è la loro vita. Lungi dalla semplice cronaca, scavando ancora nelle pieghe delle emozioni omicide e attualizzando queste emozioni ai giorni nostri, la Leosini ripropone interviste con gli stessi assassini intervistati in “Storie Maledette”, che il tempo ha forgiato nell’espressione umana, per capirne l’evoluzione. Si parla di killer, già intervistati, che sono ormai ex detenuti.
Nella prima puntata di “Che fine ha fatto Lady Jane” il protagonista è stato Filippo Addamo: uccise la madre nel 2000. Non voglio darvi conto della narrazione della storia, del carcere, delle riflessioni di pentimento di Filippo, della vita attuale post carcere. Soltanto dell’espressione giornalistica della Leosini. Si presenta preparata all’incontro, un blocco note dal quale attinge un percorso di indagine che rimesta, senza filtri, quanto è successo, indagando senza eccezione la parte più cruda: nessuna domanda si risparmia per capire la consistenza emotiva dell’omicidio.
Ma mentre il giornalismo corrente cerca di entrare nelle pieghe delle persone con il tentativo di ottenere lo scoop, la notizia sensazionale, la misura del pentimento e l’assoluzione, la Leosini ricorda Biagi: nella sua apparente freddezza interpretativa nasconde una professionalità e un rispetto che forzano la spontaneità della confessione, per riportare un quadro emotivo chiaro e realistico, nel bene e nel male.

Nulla lasciato alla commozione, a momenti di panico e lacrime, nessun perdono. Niente che porti alla beatificazione dell’omicida o a renderlo meno colpevole. Nulla di tutto ciò: proprio come nella prima intervista di un Filippo Addamo quasi adolescente nella trasmissione “Storie Maledette”, la riedizione dell’intervista recente per “Che fine ha fatto Baby Jave” ci ripropone il racconto, le emozioni, il pensiero di un colpevole maturo, che non cerca scuse, eroico nel suo senso di colpa.
Fidandosi dell’interlocutrice, si presenta nella prima parte dell’intervista come omicida. Con la stessa maturità racconta il proseguo della sua vita, fino ad arrivare alla condizione attuale, cedendo alle lacrime solo nel momento in cui si accende per il piccolo figlio. Rende una versione della redenzione credibile, senza ottenere da parte nostra il perdono per avere ucciso la madre, ma un pass per una vita normale che si è guadagnato con il carcere e senza sconti.
Il tutto tenuto sui binari da un tutoraggio giornalistico di grande levatura: rispetto, oggettività, pulizia intellettuale nell’indagare le emozioni di un omicida, nessuna concessione alla benché minima sentenza assolutoria, nessun buonismo di maniera. Ne è uscita la figura di Addamo riabilitata dal fatto di aver pagato il conto con la giustizia, ma non con la propria coscienza (per sua stessa ammissione). Ne esce altresì la consapevolezza che esista una deontologia professionale del giornalista ancora ben chiara a qualcuno.
Purtroppo nascosta in trasmissioni non di alta fascia di ascolto, a tutto scapito di un giornalismo che meriterebbe la prima pagina.
Aspettiamo con ansia già le prossime puntate, a scapito di quel giornalismo di maniera che non ci interessa.