
Ringrazio l’amica per il regalo. Avessi dovuto comprarlo io non lo avrei fatto, sicuramente figlio di un pregiudizio, ma anche di una scelta editoriale che a mio parere personale non premia. Mi riferisco al titolo: “La sottile arte di fare quello che C***o ti pare”, autore Mark Manson, editore Newton Compton. Pregiudizio o meno che sia il mio, mi hanno stancato le arti di fare tante cose, illustrate da professori che siano (Schopenhauer), o da mistificanti signori nessuno, improvvisati maestri di qualcosa. Il tempo passa ed il relativismo, nel mio caso, accantona sempre di più gli assoluti.
Con pigrizia ho messo prima lì il libro, nel posto dei libri importanti. Subito per non toccarlo: lo guardavo e mi domandavo quando e se mai lo avrei attaccato. A distanza. Poi ho approcciato l’autore per provare a familiarizzare. Un uomo con tante esperienze , tante, di vita vissuta, un Bukowski redento. Che alla fine forse con il necessario garbo, mixa sociologia, psicologia, antropologia vissute… la strada.

Le prime pagine programmatiche, nulla di accecante. Ancora un po’ di purgatorio glielo facciamo fare. Poi lo svelamento, improvviso ed immediato e la lettura in pochi giorni. Il sottotitolo sulla copertina recita: “Il metodo scorretto (ma efficace) per liberarsi da persone irritanti, falsi problemi, e rotture di ogni giorno e vivere felici”. Un messaggio in stile pensiero positivo e deciso. Nulla a che fare con il libro, che si rivela un utile sostegno muovendosi all’interno di concetti come relatività, riconoscimento delle difficoltà, paure, incertezze, scelta responsabile del coraggio, responsabilità di ogni cosa che ci riguardi. In ultima analisi un principio forte: semplicità e normalità. Il libro è un aiuto serio al miglioramento di sé. Tanti esempi per convincere il lettore più esaltato ed assatanato nell’evitare problemi, che l’essenza della vita migliore sta diversamente nell’affrontare i problemi, superficiali o profondi che siano. Catalogarli e lavorarli. La cassetta degli attrezzi: cinque valori, che l’autore definisce controintuitivi.
Nell’ordine:
1) responsabilità, assumersele relativamente a tutto ciò che capita nella nostra vita
2) incertezza: ammettere ignoranza e coltivare il dubbio, soprattutto nei confronti delle nostre convinzioni più radicate
3) fallimento: scoprire difetti ed errori e agire su di essi
4) rifiuto: la capacità di dire e sentirsi dire di “no”, un aiuto forte a capire cosa accettare e non accettare nella nostra esistenza
5) contemplazione della nostra mortalità: io la preferisco definire precarietà esistenziale, il vero valore che ci lancia nella nostra prospettiva di vita, nel senso che non c’è nulla di cui avere paura, mai
Il libro si chiude con una scena potentissima. L’autore racconta della sua gita in Sudafrica, in particolare al Capo di Buona Speranza, considerata la punta più meridionale dell’Africa e del mondo. Il nostro è proprio sulla roccia del Capo, senza barriere, davanti solo lo strapiombo sugli oceani in confine. Descrive il suo avvicinamento lento per sedersi sul bordo della scogliera, gambe a penzoloni. Si rialza, prende per ritornare e incontra un soggetto che ha visto la scena, terreo in volto e preoccupato per questo. Titubante chiede: “Va tutto bene? Come ti senti?” . L’autore nostro (comprendendo nel soggetto e nei suoi occhi la paura per la morte e la sensazione di avere assistito quantomeno ad un suicidio mancato) risponde: “Vivo, molto vivo”. In due battute due punti di vista diversi: paura e contemplazione della morte.
Commento mio? Il libro vale la pena di essere letto, arricchisce il nostro bagaglio di conoscenze, certezze nel dubbio.