
Tempo fa, desiderosa di indagare altrui approcci alla vita, mi confrontai con una persona e le chiesi come facesse, in un dato momento, a rendersi conto di essere felice. Non rise alla mia domanda, né si sorprese, irritò o passò oltre. Rispose semplicemente che non lo sapeva, non poteva saperlo, se il momento indagato coincideva con quello corrente.
“La maggior parte delle volte mi accorgo di essere stato felice.”, mi chiarì.
Una percezione a posteriori, quindi, per antitesi. Capisco solamente dopo di essere stato felice, in quanto riconosco la mia condizione attuale in uno stato degradato rispetto allora.
Tacque e mi osservò, probabilmente domandandosi se la mia indiscrezione fosse terminata. Non desideravo sapere altro; la mia mente aveva già richiamato a sé polverosi ricordi liceali e pensavo che Leopardi non avesse, poi, tutti i torti, quando sosteneva che alla quiete fosse necessaria la tempesta, che il piacere esistesse e avesse significato soltanto in quanto cessazione del dolore.
Sfortunatamente, questo piccolo aneddoto mi diede l’aire per una riflessione di carattere più generale, che svolsi però in solitudine, temendo l’altro ormai recalcitrante a filosofeggiare di sabato sera.
La considerazione alla base fu piuttosto elementare. Mi misi a soppesare la necessità di un concetto per esaltare del suo contrario. Ancora una volta, la letteratura venne in mio soccorso.
Mi ero trovata, tempo prima, a osservare con interesse l’esasperata ricerca di materialità linguistica compiuta da L. F. Céline, ossia l’utopia dell’Argot. Ci rifacciamo, dunque, alla prima metà del ventesimo secolo, Francia.
Contrariamente, benché quasi di una generazione antecedente, l’accostarsi di naturalismo e avanguardie aveva avuto sintesi, in M. Proust, in una scrittura di ampio respiro, con una ferace tensione innovativa rivolta ai nuovi temi del tempo. Vecchie cose da dire, con parole nuove. Attraverso gli occhi di Swann, Proust incanta il lettore e i personaggi stessi. Cita Stravinskij, Debussy e Monet. Mostra e sottintende gli interrogativi che le persone del tempo si ponevano su come esprimere un rinnovato concetto permanente: l’arte. Nondimeno, pari alla sua scrittura, Proust nutriva un’indole aperta, curiosa, uno sguardo attento a ciò che gli avveniva attorno.
In confronto a Céline appare una differenza abissale. L’Argot implica uno scavo sino alle radici della lingua e la sua scarnificazione, cercando di restituirle la materialità, in luogo della filosofia; ridare concretezza, in un linguaggio irrimediabilmente compromesso con la borghesia. Nondimeno, pari alla sua scrittura, Céline nutriva un’indole chiusa, rancorosa, un forte pregiudizio sociale in cui il materialismo era confuso con il feticismo.
Due approcci ideologicamente e stilisticamente antipodi, accomunati, tuttavia, dall’essere scaturiti in qualità di replica a un pervasivo, collettivo senso d’inadeguatezza. Céline, razzista, omofobo, antisemita, e Proust, ebreo omosessuale abitarono il proprio tempo in maniera differente. Elaborarono risposte in modo differente.
L’apertura caratterizzante l’indole di Proust garantisce una fedele panoramica della società contemporanea e demistifica le illusioni legate all’agognata ascesa sociale. Solcare la vetta dei ceti sociali non solleva dal macigno dell’inadeguatezza. Ce ne si libera, forse, quando s’incontra la propria mortalità o ci si svincola dai valori sociali, trovando una propria realizzazione personale. Come quando Ludovico diviene Fra Cristoforo, nei Promessi Sposi, o Swann rivela il proprio cancro alla contessa, nel finale di Guermantes II.
Céline, al contrario, perde gli altri in se stesso. Nel Protagora, Platone sostiene che la radice del male è cadere vittima di se stessi. L’odio è un riflesso. Volgiamo lo sguardo al mondo, ma, vinti dal vortice della nostra dimensione interiore, non otteniamo altro che proiezioni di noi stessi negli altri. Doppioni delle nostre insicurezze.
Così Céline si rivolge all’esterno, e proietta una galleria di specchi. Affronta quell’inadeguatezza, quella fragilità data dalla molteplicità e transitorietà dell’io rifugiandosi in se stesso, per esempio rivendicando la propria identità, con corollari. Essere se stesso diventa in conflitto con l’altro. Da qui i contatti non occasionali dello scrittore con il fascismo, dalle prese di posizione in favore della Francia di Vichy al sostegno verso la Germania nazista, dopo la sconfitta del 1940.
Reciprocamente, in questi due scrittori l’accettazione e l’odio si sono configurati come due paradigmi difensivi, in risposta al comune senso di inadeguatezza verso il mondo, alla fragilità della propria identità, poiché molteplice ed effimera. Vista l’intramontabilità della questione, credo valga la pena, in conclusione, di chiamare in gioco un terzo autore, a decreto della maniera più saggia.
Siamo partiti dal presupposto che il male non sia altro che un riflesso, una proiezione delle nostre insicurezze nell’altro. Come fare a squarciare questo velo illusorio? Per Dante l’antidoto è la conoscenza, balsamo lenitivo, poiché conduce all’amore. Per conoscenza, s’intende l’entrare in contatto con la sorprendente varietà del reale, provare sentimenti per amici, amori, appassionarsi a un’attività. Conoscere è amare, e l’amore è l’essenza del mondo.
Prigioniero in se stesso e impegnato nella piuttosto solitaria ricerca linguistica dell’Argot, questa proiezione centrifuga per Céline si spezza. Rancoroso e smarrito, abita pertanto il proprio tempo da ospite indesiderato.
di Noemi Manghi