
Ho riletto “Il nome della rosa” di Umberto Eco. Se chi ha visto il film, bellissimo, pensa che il libro sia altrettanto affascinante, si sbaglia. Un libro bellissimo, ma non per tutti. Verrebbe da dire, consigliato solo a chi ha una discreta cultura di storia e filosofia medioevale, con focus particolare sulla storia della Chiesa.
Al di là della trama, buona parte del libro si concentra sulla seguente tematica: nel medioevo ogni aspetto della vita e del pensiero dell’uomo sono legati alla religione. Tutto ciò che era buono stava al suo interno, chi pensava diversamente era un peccatore e un eretico. La Chiesa disprezzava, per i comuni mortali, ogni loro anelito di vita terrena vissuta, che, allontanando da Dio, era abiurata.
“Il nome della rosa”, per i cultori della storia e della filosofia affamati di sapere, è perfetto. Per gli altri …. noioso. Con ciò attirandomi volontariamente la bolla della scomunica per ignorante insipienza. Ma non su questo in particolare voglio avvincere l’interesse del lettore, ma in primis sull’aspetto dell’evoluzione del pensiero umano: un riscontro di come i pensatori evoluti e tutti coloro che abbiano pensato abbiano portato il pensiero all’attuale condizione di massima espressione della libertà e del progresso possibile. Uno strumento oggi ancora perseguitato in tante parti del mondo, ma anche in queste condizioni abile a organizzare qualsiasi tipo di riflessione, azione e risultato.
Oggi chiunque è in grado di pensare ed ha tutti gli strumenti per sviluppare questo “sesto” senso. Non si crogiolino nell’incapacità di pensare gli sfaticati, i perdenti di mestiere, coloro a cui viene facile non pensare: in ogni circostanza il pensiero è nelle capacità di tutti, non costretto dalla paura, come nel medioevo, del peccato. Il pensiero è incontenibile, come l’aria, nessuno lo può costringere in una bottiglia. Non incatenato alla filosofia, alla scienza, alla fisica. Ma concatenato a tutto ciò che passa per la testa di chi pensa. Come il vento, non si può comprare, a meno che non sia l’effetto voluto, il farsi comprare il pensiero. Il pensar leggero, per generare dubbi più che per creare certezze, insana assenza di punti d’arrivo, sempre punto di partenza.
Alleniamolo con la conoscenza, a scuola, con la lettura o ogni altro strumento che sia, ma facciamolo gareggiare senza uno scopo preciso, se non una serenità serale prima di stendersi. Immediatamente in discussione al mattino: il pensare sia pronto a ripartire nella prateria delle cose incerte su cui riflettere. Ho cercato di portare avanti un’indagine sull’uso delle parole, per comprendere quanto l’incremento della conoscenza di esse abbia, nel corso dei secoli, influito positivamente sul pensiero. Non ne sono uscito con un risultato soddisfacente. Molto pragmaticamente mi sono rifatto a due episodi che penso possano dare la misura di come, solo nell’ultimo secolo, gli strumenti alla libertà del pensiero siano cresciuti tanto.
Avevo dieci anni, siamo nel 1970, stavo ascoltando il telegiornale. La poca confidenza alle parole “complicate” mi portò a chiedere a mio padre: “Papà, ma in tanti stanno proprio così male ogni giorno?”, dopo l’ennesimo incipit del giornalista “Stamane…..”, che la desuetudine al termine mi portava ad avvicinarlo al termine a me più simile “Stamale…”.
Per venire ai giorni nostri: due anni fa, mio nipote a tavola, tre anni, alla mia richiesta “vuoi altra pasta?” mi risponde “No, sono sazio”. Credo che la parola sazio, nel mio vocabolario, debba ancora entrare. E questo al di là delle battute, vi faccia pensare a quanto, nei secoli bui, o nel volontario e forzato stato di conservazione dell’ignoranza, abbia nuociuto alla crescita sana del pensare. Unito alla pigrizia del non pensare. Oggi non è più così, non cerchiamo alibi: pensiamo. E qui viene il bello.