“Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

silenziosa luna?”

Leopardi trasse l’ispirazione per questo canto dalla primordiale attitudine poetica dei pastori nelle steppe dell’Asia centrale. “[…] passano la notte seduti su un sasso a guardare la luna, e ad improvvisare parole molto tristi su certe arie che non lo sono di meno”.

Un istinto primitivo, sgorgato da un popolo povero e analfabeta, che denota, però, l’umana universalità degli interrogativi sull’esistenza.

Rimaneggiato, tra i tanti, da Kierkegaard a Dostoevskij, da Nietzsche a Sartre, l’esistenzialismo impregnò, poi, in maniera determinante dagli anni venti ai cinquanta la cultura del XX secolo ed Essere e Tempo, di Martin Heidegger ne costituì una pietra miliare.

Che senso ha il mio essere qui? Che cosa devo fare ora? O come chiese il poeta alla luna: “[…] dimmi: ove tende questo vagar mio breve?”

ESSERE-NEL-MONDO

Leggere Heidegger senza commenti è un’esperienza paragonabile alle sabbie mobili. Essere e Tempo non nasce come libro di auto-aiuto, ma è difficile non trarne ispirazione. 

Nelle Operette Morali, Leopardi si destreggiava in dialoghi filosofici intrecciati tra i personaggi più disparati: storici, fantastici o mitici. La tenzone amichevole potrebbe vedere stavolta protagonisti il poeta stesso, fronteggiato dal filosofo tedesco.

Prima stoccata: il poeta mira agli organi vitali del suo avversario; pone la domanda più angosciosa di tutte: un colpo unico, punta ad una vittoria rapida e indolore. Qual è il senso della mia vita?

L’avversario non schiva; para. O meglio, abbraccia la stoccata con la sua arma, gli stocchi s’intrecciano e devia il colpo in un’altra direzione. Il cardine non è tanto domandarsi il senso del nostro essere, quanto quello del nostro esser-ci.

Il poeta tentenna, perplesso. Allo stesso modo il lettore-spettatore.

Il Sé non è una coscienza osservatrice; il filosofo riprende l’equilibrio, consolida la posizione. Il Sé è nel mondo. E’ in necessaria relazione con le cose e le persone; è in una società, una cultura, circoscritto dallo spazio e dal tempo.

Il suo motto non è più “Io penso”, bensì io “mi curo di”: ricerco, esploro, costruisco, mi relaziono.

LA GETTATEZZA

Contrattacco: è un affondo preciso; trae lo slancio dalla parata precedente e va a completare l’azione. L’uomo è gettato casualmente nel mondo, in un contesto non di sua scelta, ma giunge dotato delle capacità di parola e azione. 

E fuetto: contando su queste, può esplorare le possibilità che ha qui e costruire il suo senso delle cose. Parte della sua natura è interrogarsi ed esplorare il suo spazio, sostenere le incertezze, al contempo affermando la propria identità. 

Inoltre, si dischiude e mostra al mondo; vi investe se stesso, con parole e azione. 

Considerato ciò, è impossibile che una vita non abbia significato.

DAS MAN

Fine dell’azione. Parole laconiche, la distanza tra i due aumenta.

Una macchia, anzi due. Il selciato si tinge di rubro. 

Piccoli squarci si rendono visibili nella cotta di maglia del filosofo. Il trionfo non è esauriente.

Il naturale modo di esistenza dell’uomo non è la scelta di un intricato percorso di realizzazione o autoesame, bensì l’essere “uno in mezzo a molti”.

Nessuno si separa mai totalmente dal Das Man: la voce comune, sociale. Il “si” impersonale del “si deve fare così”, senza mai scegliere veramente.

Ultimo contrattacco: flèche. Se questo caratterizza la vita inautentica, però, è possibile individuare un’alternativa. L’individuo autentico è invece colui che sa cogliere pienamente la propria libertà; è padrone e guida del proprio Essere, almeno quanto spazio e tempo consentono.

Una risposta appropriata alla vita è gettarsi al suo interno, giungendo lungo la via a conclusioni riguardo a ciò che è reale o vero, separate dalla pubblica opinione.

COMMENTI FINALI

Siamo esseri contingenti e maggiormente propensi a vivere inautenticamente, sussumendoci nella routine collettiva.

La Natura ci ha messi al mondo per farci soffrire e ne resta indifferente, arrivò a dire il poeta.

Ci fa desiderare un piacere infinito per estensione e durata, ma non ci fornisce i mezzi per realizzarlo. Siamo destinati all’infelicità.

C’è dell’altro, però, che accomuna Leopardi e Heidegger così nel punto d’inizio come nella conclusione del pensiero.

La registrazione della sofferenza, per l’uno, e dell’inesplicabilità della vita umana, per l’altro, si evolvono nell’esortazione all’azione.

“Qui su l’arida schiena / del formidabil monte / sterminator Vesevo” si estendono i cespugli di ginestre, scriveva Leopardi. Fiori nati per caso in quel posto, consapevoli della propria caduca insignificanza rispetto alla vastità della Natura, che tuttavia abbelliscono, profumando, un luogo scelto non da loro. Traggono il massimo dalle possibilità loro concesse, nel casuale collocamento spazio-tempo in cui si sono trovate.

Allo stesso modo, Essere e Tempo è un recipiente di passione verso le possibilità umane e il privilegio di essere, secondo cui l’uomo è un “progetto gettato”: le sue possibilità, cioè, vanno oltre a ciò che si trova a vivere.

A conti fatti, i due depongono le armi e concordano un pareggio.

Similmente:

Hannah Arendt, La condizione Umana

René Descartes, Meditazioni Metafisiche

Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura

Søren Kierkegaard, Timore e Tremore

Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla

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